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Cercare il posto sicuro

Cercare il posto sicuro

Meditazione Guidata n°22

Alcune volte il nostro desiderio di sentirci al sicuro, ci tiene costantemente impegnati ad analizzare tutto quelli che accade nel presente, magari a pensare con nostalgia a situazioni del passato o a immaginarci situazioni ideali per noi, per stare bene. Ci affaccendiamo a creare nella nostra testa quello che per noi dovrebbe essere il nostro posto sicuro. Molto spesso questo ci porta a opporci alla realtà che stiamo vivendo: la giudichiamo, la paragoniamo a questo ideale che ci siamo costruiti/e. Questo è un meccanismo che alcune volte ha a che fare anche con le emozioni con cui viviamo situazioni o contesti, perché arriviamo a giudicare quello che proviamo in base a quello che secondo noi potremmo o dovremmo provare.

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Iniziamo a respirare in maniera sempre più profonda. Inspiriamo gonfiando l’addome ed espiriamo sgonfiando l’addome. Facciamo in modo che siano proprio dei respiri che ci rilassano, che ci aiutano ad arrivare proprio qui, questa sera, dei respiri che lasciano andare le corse che abbiamo fatto per arrivare qui, gli altri pensieri, le preoccupazioni. Diamoci la possibilità di sgombrare il campo e accogliere questo momento di meditazione.

Nel buddismo spesso si dice che siamo tutti accomunati dal fatto che vogliamo essere felici, che vogliamo sentirci al sicuro: abbiamo voglia di sentirci a casa, in un posto dove possiamo essere noi stessi e dove possiamo rilassarci. Abbiamo diverse modalità per cercare di entrare in questo posto sicuro.

Ci sono dei casi in cui manipoliamo la realtà per cercare di assecondare questo bisogno e quindi abbelliamo le situazioni, qualcosa non lo vediamo, qualcosa non lo affrontiamo, sistemiamo il sistemabile. Fondamentalmente, proprio per questo nostro bisogno di sentirci a casa, in un modo o nell’altro cerchiamo di tornare agli stati d’animo che conosciamo di più perché sono quelli che siamo abituati a vivere e ad affrontare. Se questi stati d’animo sono conflittuali, non ci sentiamo a nostro agio o a casa in una situazione di tranquillità o non conflitto. Sembra paradossale, ma in alcuni casi capita.

Altre volte il nostro desiderio di sentirci al sicuro, ci tiene costantemente impegnati ad analizzare tutto quelli che accade nel presente, magari a pensare con nostalgia a situazioni del passato o a immaginarci situazioni ideali per noi, per stare bene. Ci affaccendiamo a creare nella nostra testa quello che per noi dovrebbe essere il nostro posto sicuro. Molto spesso questo ci porta a opporci alla realtà che stiamo vivendo: la giudichiamo, la paragoniamo a questo ideale che ci siamo costruiti/e. Questo è un meccanismo che alcune volte ha a che fare anche con le emozioni con cui viviamo situazioni o contesti, perché arriviamo a giudicare quello che proviamo in base a quello che secondo noi potremmo o dovremmo provare. Anche solo nel parlare o spiegare questo tipo di approccio, quello che sento è proprio la fatica, l’energia in questo costante paragone, in questo costante giudizio della realtà, di quello che provo, di come vorrei che fosse, di come non è. Così, finché le cose non sono in un certo modo o io non provo determinati sentimenti o emozioni, non va bene, non posso sentirmi a casa o al sicuro.

Il risultato, sia nel primo che nel secondo caso, è di una separazione tra quello che pensiamo e quello che in realtà viviamo.

C’è poi un terzo modo di intraprendere questo percorso di ricerca del posto sicuro e cioè quello di rivolgere l’attenzione e le nostre energie a conoscere l’esperienza attuale, l’emozione attuale senza giudicarla, senza paragonarla, osservando quello che avviene nella nostra mente, nel nostro cuore, nel nostro corpo, aprendoci anche alla mutevolezza. In questo modo possiamo coltivale la possibilità di sentirci al sicuro in ogni occasione, anche se la vita attorno magari non ci piace o anche se quello che stiamo provando è un’emozione difficile.

Nella pratica tradizionale si parla di mantenere un’attenzione sollecita e non giudicante a quello che accade attorno e dentro di noi, altre volte si parla di atteggiamento materno e responsabile. Non si può passare da un’attitudine fortemente giudicante all’accettazione sollecita e non giudicante da un giorno all’altro. Come in tutte le cose è necessaria pratica e pazienza, ma già renderci conto del nostro continuo giudicare e giudicarci, e di quanto ci identifichiamo con questo giudizio o con il momento di disagio che stiamo vivendo, ci può aiutare a fare i primi passi, a imparare che, al contrario di quello che siamo spesso portati a fare, cioè scegliere la strada più facile o andare sulla scia delle convenienze, abbandonare l’ossessione di sbarazzarci dei “momenti no” è un primo e profondissimo passo nell’accettare o nel cercare il posto sicuro dentro di noi e non fuori, nell’abbracciare questo terzo modo di affrontare la realtà, quello che proviamo o quello che viviamo. Non abbellisco e non mi creo i fronzoli su quello che sto vivendo, non divento nostalgico e penso solo “Ah com’era bello e come non lo è adesso”, soprattutto non continuo ad alimentare l’avversione per il presente perché non è come vorrei, magari aggiungendoci come deve essere il futuro ideale. Questo non significa che staremo sempre bene, anzi ci possono essere dei momenti in cui ci sentiamo spaesati o vulnerabili e va bene così.

Nella tradizione si parla di nibidda, sereno disincanto: quello che avviene, sempre molto gradualmente, quando non siamo più affascinati o attirati dalla continua del piacevole e soprattutto dal respingere lo spiacevole, ma semplicemente stiamo al centro incantati da questo centro e coltiviamo il continuo ritorno all’equilibrio che ci dona completezza, agio e quindi anche felicità, sia verso noi stesso che poi noi verso gli altri. Questo è l’ultimo step. Prima di pensare a questo o di pensare ad affrontare le grandi sofferenze della vita, l’approccio è su quelle minori, su quelle più piccole. Quanto siamo davvero interessati ad affrontare, a vedere, a calarci dentro la sofferenza più piccola, quella che ci creiamo attimo dopo attimo giudicando le nostre giornate, la vita che che viviamo, le emozioni che proviamo. È da questi piccoli passi che si arriva alla meta finale. Molto spesso ci si scoraggia prima perché vogliamo vedere i risultati. I risultati per noi, sempre per la nostra testa che crea dei fantastici cartelloni di arrivo ideali, sono solo quelli grandi, sono solo quelli che mi permettono di stare sempre bene, se no non serve a niente e mollo. In realtà il percorso è fatto di piccoli passi che iniziano col vedere e con lo stare. Di solito all’inizio paradossalmente si comincia a stare peggio quando si pratica o si medita, perché vediamo meglio quel disagio o quella sensazione di malessere che magari ci ha fatto cercare uno strumento per uscirne, ed è normale. Un monaco diceva “La mente è come il pavimento, più lo pulisci più viene su lo sporco e il nero”. È quello che succede con la pratica soprattutto all’inizio. In realtà è proprio nell’accorgerci dei nostri giudizi, e nella volontà di lasciare andare quest’abitudine meccanica, che iniziamo a muovere i primi passi che ci portano poi al cammino della liberazione. Meno siamo occupati a puntellare il nostro ego e a sostenere noi stessi e cercare conferme e opinioni, più abbiamo energia per essere e per entrare in contatto con noi, un contatto onesto e autentico che abbandona i fronzoli, gli abbellimenti, la malinconia, le idee su come dovrebbe essere o come dovrebbe stare e semplicemente sta.

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